QUEI MIEI CARI GENITORI
DI GIUSEPPE GIUPPONI (FUI')
Mia madre ce l'aveva spesso con il babbo: alto, robusto, una bella faccia larga, un viso simpaticamente umano e serio, buono fino a parere disinteressato.
Lei una donna piena di brio, coraggiosa, forte, sempre in giro con quella pancia che spandeva fin quasi sulle ginocchia.
Ce l’aveva con lui perché, quando se ne andava da casa, non ritornava che a sera inoltrata.
Di solito bighellonava all’osteria a giocare il quartino con gli amici o girovagava il fiume con il Gozzi a parlare per delle ore di trote e di pesca: i loro sguardi erano sempre rivolti all'acqua ora cheta, ora corrente, del Brembo.
Ce l’aveva anche perché al babbo piaceva suonare la tromba nella banda del paese (era stato trombettiere del 5° alpini durante la guerra mondiale).
Un paio di volte la tromba era volata da basso, giù nella piazzetta.
Qualche parolaccia poi il babbo scendeva le scale a capochino.
Brontolando raccoglieva la tromba, la puliva, strofinandola contro i calzoni, risaliva in casa e se ne andava a dormire.
A me spiaceva vederlo così mogio e mortificato.
Qualche ora dopo però lui ritornava in cucina come se non fosse accaduto nulla.
Ma i litigi più lunghi e più grossi avevano una causa politica.
Infatti ogni tanto mio padre si vestiva di nero.
Ci stava bene nel camiciotto nero e in quei pantaloni tirati, alla cavallerizza, serrati, sopra, da una larga fascia elastica e chiusi, sotto, nei gambali lucidi. A me piaceva il babbo vestito così: sembrava più giovane, più forte e perfino più bello.
La Bruna e la Anna, le mie sorelle più giovani, se lo lisciavano soddisfatte.
Anche sotto il fez non ci stava male.
Ma la mamma non ce la faceva a sopportarlo.
E quando la sera ritornava, dopo le esercitazioni, i cortei e le marce, su e giù per le vie del paese, c'erano parolacce, anche sconce, per lui, per i suoi camerati e per quell'omiciattolo del Duce.
Nemmeno le diceva sottovoce. Gridava quasi che sotto la sentivano; e noi a chiudere di corsa le finestre.
Quel giorno della fondazione dell’impero, la faccenda si mise veramente male.
Il babbo, da basso, aveva festeggiato con qualche calice dì troppo la vittoria del duo Badoglio-Graziani sugli abissini.
In paese c’era stato un corteo notturno con tanto dì fiaccolata. Sul palco, in piazza, avevano parlato i quattro caporioni del paese.
Io non ci avevo capito molto dei discorsi e mi ero divertito con altri bambini a mettere sul rogo un pupazzo con la maschera del Negus.
Quella sera a casa non volarono solo parolacce. La mamma rampinò con l’uncino della stufa il fez del babbo e il tutto centrò la finestra, volò oltre la strada, e finì nel torrente.
Il babbo tentò di tornarsene da basso, ma fu inutile: là, sulla porta c’era lei con la scopa.
Al babbo, rotto di rabbia, non rimase che sedersi, togliersi gli stivali, andarsene in camera.
Un poco di rabbia ancora e uno stivale finì contro la porta a vetri.
Qualcuno, di sotto, guardò su, credette forse ad una festa, e non ci fece caso.
A scuola, il giorno dopo, il maestro ci fece imparare una canzone fascista: un inno di guerra che cantava di un legionario che muore con la mitraglia in mano e, più in là, di Ciano, dei Mussolini e dell'aviazione fascista in Abissinia.
La lezione finì.
Poi il maestro chiese le nostre impressioni sull'impero.
Quando toccò a me chiese: "I tuoi, a casa, come hanno festeggiato la vittoria?"
Io mi alzai di scatto, sull’attenti, e risposi: "Da veri camerati signor maestro! La mamma per di più ha voluto raccontarci alcuni episodi di eroismo fascista".
Dissi dell’altro. Ma intanto mi veniva da ridere.
Il maestro si grattò il mento, palpo nel taschino della giacca.
Tolse una mezza sigaretta, l’accese e, sbuffando un nuvolo grigio, proruppe: "Che donna tua madre! Che bell’esempio per tutti quella donna'".
Tirò un’altra boccata e continuò: "L’Italia fascista deve molto a queste donne: madri feconde, spose devote…" Io non ce la feci più a resistere e sbottai a ridere.
Ridevo di gusto, non ce la facevo a smettere, finché anche il mio compagno di banco, il Piccolo di Camerata, incominciò anche lui. Poi il Tremendo, poi il Brochetì, il Mario Redondi e via, via tutti gli altri. Fu un gran ridere collettivo. E il maestro a chiedersene, smarrito, il perché. Urlò il poveretto che la smettessimo, si agitò. Colpì con qualche sberla quelli dei primi banchi, ma fu inutile. Passò un po’ di tempo. Il riso era frenetico. Qualcuno smetteva, poi ricominciava. Dell’altro tempo passò e, finalmente, ansanti, con le lacrime agli occhi, riuscimmo a smettere. Esausti, non ci guardavamo per non ricominciare.
Nè il maestro tentò di conoscere la causa del fatto.
Accese un'altra cicca, si sedette alla cattedra, si mise a leggere il "Popolo d'Italia".
OgnI tanto alzava il capone grigiato, quasi canuto alle basette, sprofondava nella classe il suo sguardo mesto: due occhi incavernati nella faccia disossata.
E ricominciava a leggere.
Alcuni miei compagni giocavano a battaglia navale, altri disegnavano, altri ancora giocavano ai pennini.
Io stavo attento al Bruno, quello dell'ultimo banco, che era tutto preso a stemperare l'orlo del banco con un coltello a serramanico.
Passò del tempo.
Le liti in casa ricorrevano per i soliti motivi. Ora la mamma si lamentava anche perché il babbo buttava via troppo tempo a giocare a bocce.
Lei lavorava sodo: tiravano dei momenti grami e noi si doveva crescere in cinque.
Era un po’ dovunque, nelle case della gente del paese: là per un parto. qui per un massaggio, lì per un’iniezione o per assistere un vecchio, ecc.
E a sera, per questo suo grande uso, era sempre molto stanca.
Perciò si arrabbiava, lei che nemmeno di notte godeva di sicuro riposo.
Intanto le liti per causa politica avvenivano sempre più di rado.
Mio padre, pian piano, si era staccato dall'ambiente fascista del paese.
Alle cerimonie non sempre ci andava e, in occasione dei cortei, sopra la camicia nera, metteva la giacca.
Poi smise di calzare gli stivali che più tardi vendette al Gozzi.
Il fez non lo portò più.
E finì che più nessuno riuscì a fargli rivestire la divisa.
Continuava comunque a pagare la tessera del partito, ma da tempo ormai, nei crocchi o con gli amici al Bar del Mariani, non discuteva più nè di rossi nè di neri.
Anzi, una sera, parlando con il solito Gozzi, usci a dire: "Se entreremo in guerra contro gli Inglesi, sarà un brutto affare per noi".
Il Gozzi gli batté amichevolmente una manata sulla spalla e gli soffiò all'orecchio di non farsi sentire a dire cose del genere in giro.
Qualche giorno dopo, a scuola, chiesi al maestro se era vero che l'Italia stava preparandosi alla guerra e quello ci mise assieme un’intera lezione.
Ci disse che era vero, ma che ne era causa l’egoismo della Francia e dell'Inghilterra; che gli italiani, con l'aiuto della Germania di Hitler, avrebbero finalmente lavato l'onta delle sanzioni; che Nizza, la Savoia e la Corsica dovevano essere annesse alla madre patria, ecc…
Appena fui a casa, quel giorno, raccontai della lezione al babbo.
Facevo la voce grossa. Lui non mi ascoltò o fece finta.
Mio fratello me ne buttò lì quattro secche e se ne andò da basso.
La mamma mi si avvicinò e raccomandò di non parlare di guerra.
Poi sbuffo:"E la smetta una buona volta, quel poveretto, di parlarvi del duce e del fascismo!".
Poi, quasi parlasse a se stessa:"Ma è inutile. Vogliono plagiarli tutti!".
La Tina gracchiò qualche parola in difesa di Mussolini (la maestra, qualche giorno prima, aveva raccontato che il Duce pensava per tutti noi e che, per il troppo lavoro, s’era rovinato lo stomaco per cui poveretto, ora faticava perfino a digerire gli spinaci), ma le capitò una scopata sul collo.
Se ne andò piagnucolando.
La situazione internazionale precipitò. E la guerra venne dichiarata.
Eravamo ai primi di giugno e faceva già caldo.
Dal Silvio, il cartolaio, e alla sede del fascio, c'era gente che ascoltava la radio.
Mussolini parlava a scatti, energicamente.
Quasi pensasse, ad ogni proposizione finita, fermava poi ripartiva col tono che rialzava.
Alcuni lo ascoltavano sull'attenti.
Il segretario politico, di fianco alla radio, sembrava una statua: ritto, duro, secco e magro, con quel mento a becco d’anatra, tutto vestito di nero, mi fece impressione.
Alla fine del discorso, a guerra dichiarata, biascicò un ordine: "Camerati in fila!"
Si formò un corteo, un centinaio circa.
C'erano un po' tutte le autorità del paese.
Qualcuno aveva mandato a chiamare i componenti della banda.
Girarono su e giù per il paese cantando e suonando inno fascisti.
Chiamarono più volte mio padre che scendesse, ma lui non si mosse e se la cavò con la scusa del turno di notte.
Si sedette vicino alla finestra, il mento appoggiato nelle mani, i gomiti sulle ginocchia.
Ci stette per un bel po’. Quando mia madre lo scosse, era ora di cena.
C’eravamo tutti: le tre sorelle, mio fratello Mario, io, la mamma e il babbo.
Nessuno fiatava: perfino la Bruna, la minore, se ne stava quieta e trangugiava, senza farsi imboccare, la minestra.
Ci sbirciava, civettuola, con gli occhietti scuri e stretti, ma per lei, quella sera, non ci furono attenzioni.
Passò dell'altro tempo.
Il babbo era diventato un uomo triste e chiuso, perciò la mamma lo seguiva con particolari attenzioni.
Molti suoi amici se ne erano andati a fare il soldato. C'era rimasto il Gozzi (Lui all'apparenza così in forze)per via di una malformazione cardiaca.
Trascorreva il tempo libero al fiume: pescava o leggeva il giornale.
Non andava più a giocare a bocce o a suonare nella banda, né a parlare con i fascisti alla casa del fascio o in piazzetta. Tutti se ne erano accorti.
Un giorno, di tardo pomeriggio, mia madre entrò trafelata in cucina. Sudava e stentava parole incomprensibili. Aveva in mano una lettera. Mi avvicinai. "Che hai da borbottare?" le chiesi "Tuo padre le combina tutte!" fu la sua risposta "Guarda qui" continuò rivolgendosi a mio fratello Mario "Se si può essere più incoscienti dì cosi?" e mostrò la lettera…
Il Mario la lesse.
La lessi anch'io.
Era uno scritto del segretario politico, quel magrone di Bocconi, indirizzata al camerata Giupponi. E concludeva "In questo momento storico, momento che decreterà, con la vittoria dell'Asse, la grandezza della nostra Patria, Voi non avete a tutt’oggi riproposto l’adesione al partito fascista!".
Ci fu un primo sfogo di mia madre, la sera quando il babbo, alle dieci ritornò dalla cartiera.
Lui nemmeno se ne curò, cenò e andò a dormire.
"Chissà cosa gliene dirà la mamma?" pensai.
E invece in camera li sentii parlare sottovoce, quasi bisbigliassero.
C’era aperta la porta della stanza e potei capire qualcosa.
La mamma invitava il babbo a richiedere la tessera del partito per non compromettere il posto dì lavoro.
"Non capisci" gli diceva con tono affettuoso "Che potresti compromettere anche me? Ben lo sai che come ostetrica dipendo dal Comune dove loro fanno ciò che vogliono. E i figli? Sono cinque, tutti da tirar fuori e da mandare a scuola".
Mio padre dapprima tentò di sfuggire al discorso. Diceva che la faccenda riguardava solo lui, non i suoi dì casa; che ormai non se la sentiva più di essere fascista; che i fascisti con l’entrata in guerra avevano perso tutto; ecc.
Ma alla fine cedette: avrebbe richiesto la tessera.
Nella stanza dei miei si spense la luce. In casa ci fu silenzio. Mi addormentai.
Passò l'inverno e venne la primavera.
Io frequentavo le scuole medie a Zogno e ogni giorno tornavo a casa, mezzo morto di fame, verso le quindici. Un giorno ci trovai la mamma triste. Forse stava piangendo.
Si riprese quando si accorse di me.
Tolse dal forno il piatto della polenta e me lo porse.
Preparò tutto, si sedette accanto e mi disse:"Ci risiamo con la faccenda della tessera del fascio. Ora non chiamano più tuo padre, vogliono me".
Io mangiavo, ma la seguivo con attenzione.
"Domani dovrò andare dal segretario politico. Tuo padre ieri gli ha detto sul muso che non ce la fa più ad essere corresponsabile della politica fascista. Il Bocconi gli ha suggerito di prendere la tessera anche solo per non parere un sovversivo agli occhi dei compagni di lavoro. Ma a quanto mi risulta, quel testardo di tuo padre s’è rifiutato".
Il giorno dopo mia madre andò alla sede del fascio. La accompagnò mio fratello.
Ritornarono un paio d'ore dopo. lo e il babbo li aspettavamo in cucina. Prima entrò mio fratello poi la mamma. Le scorsi subito il viso sereno. Si lasciò cadere sopra una sedia, riprese un po’ di fiato, poi ci raccontò dell’incontro.
Ci disse del Bocconi, di come biascicando urlava. Ci parlò dell'altro suo compare, il camerata Cereda, in orbace e pettoruto, e dei ritratti del duce e del re che, dall'alto, la guardavano come due santini.
All'inizio i due furono pieni di convenevoli poi, col passar del tempo, degenerarono in minacce.
Minacciarono di far licenziare il babbo e di denunciare all'ordine provinciale delle ostetriche la mamma.
Lei c'era stata al gioco per qualche tempo; ci aveva all’inizio anche riso sopra, quasi fosse una cosa facilmente superabile, ma alla fine non resistette e gliene disse alcune secche.
Al Cereda saltò fuori a dire che, vestito in quel modo, le sembrava in maschera.
All'altro gridò che custodisse di più sua moglie piuttosto di curare le tessere degli iscritti al fascio e, all'uno e all'altro, consigliò di far ritorno ai loro paesi e lasciassero in pace la gente di S.Giovanni.
Poi li aveva piantati lì e se ne era venuta a casa. Mi sentivo fiero di mia madre e le sorridevo.
Ma non ero tranquillo: se poi le cose si mettevano veramente male per tutti noi? Anche a me era venuta la voglia di dire al babbo di lasciare a parte la politica permettendoci di vivere una vita normale come le altre famiglie.
Ma, mi rinvenne l’ultimo discorso di Mussolini, quello del bagnasciuga: noi in classe a giocare e il professore a gridare e sgolarsi che stessimo zitti e attenti.
Il duce che parlava di navi e di aerei, di vittorie in Russia e in Africa, e noi a giocare con i pennini e con tutto ciò che ci capitava sottomano.
Perciò anche a noi studenti non importavano molto le cose del fascismo e del suo capo.
"Magari quant’altra gente non è fascista in Italia…" pensai tra me. Benedissi di cuore i miei genitori.
Venne l'estate, gli alleati sbarcarono in Sicilia e la guerra ci capitò addosso rendendoci protagonisti. Il babbo era stato profeta.
I fascisti si sono disuniti: Benito Mussolinì viene fatto prigioniero: il re fa firmare l'armistizio e poi scappa al sud, rimediando un posto sicuro per sé e per la corona.
Un giorno di quel settembre il babbo uscì a dire: "Ora si farà brutta per tutti".
Poi, rasserenato, continuò "Voi siete troppo giovani per essere coinvolti in questa guerra".
Non fu così.
Mio fratello aveva un conto da pagare ai fascisti: il 25 luglio, in occasione della caduta del regime, si era dato da fare, con altri coetanei ad imbrattare di vernice i segni e alcuni slogans mussoliniani posti sui cantoni delle case e a scrivere che il popolo avrebbe salvato la patria.
Perciò i repubblichini lo processarono.
Fu condannato al lavoro forzato in Germania.
Corse la mamma alle carceri di Sant'Agata e tanto brigò che mio fratello poté arruolarsi volontario nell'artiglieria contraerea di Salò.
Fu mandato a Verona. ma non ci stette molto.
Scappò e divenne partigiano in Val Taleggio.
Così anche il babbo e la mamma si trovarono coinvolti, e finalmente uniti, nella realtà della resistenza bergamasca.